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In conversation with Kate Gottgens

(Scroll down for the English Version)


Andrea Sirio Ortolani: Cosa pensi della crescente attenzione internazionale verso l’arte contemporanea africana?

Kate Gottgens: Ci è voluto molto tempo, e credo sia un’attenzione necessaria, è un riconoscimento verso qualcosa che era ignorato, e a cui non veniva dato abbastanza rispetto. Credo che all’inizio degli anni 2000 alla Biennale di Venezia, abbiano iniziato ad esserci molti paesi africani rappresentati, e questo ha permesso una crescita. Poi credo anche che gli stessi stati del continente abbiano iniziato a prendere più seriamente l’arte africana sul palcoscenico internazionale. Credo sia solo una parte degli errori della storia, il fatto che le istituzioni e i musei abbiano sempre guardato all’arte europea e americana mettendole in evidenza. Ora le politiche stanno cambiando, si tratta di un’onda che avrà seguito per un po’ di tempo e credo abbia trovato dei parallelismi con l’impulso di Black Lives Matter.

AS: Come hai vissuto il periodo del Covid-19 fino ad ora e come hai gestito il tuo lavoro? K: Si è trattata di un’occasione per essere veramente focalizzata sul lavoro, senza distrazioni. Non è cambiato molto nella mia pratica quotidiana, ma è diventata una routine praticamente forzata. Mi ha dato il tempo per esplorare un nuovo media, il collage, ed è stato un momento per fare un bilancio rispetto a ciò che ho, oltre a darmi la voglia di rispondere alla pandemia in un modo nuovo. Non potevo tornare alla tela e alla pittura nello stesso modo di prima, così ho iniziato a tagliare questa vecchia collezione di riviste, che ho trovato in un mercato delle pulci; si tratta di una raccolta di riviste degli anni Cinquanta e Sessanta, prevalentemente di arte, unite da qualcuno successivamente. In passato ho letto di come la pratica del collage a volte sia un modo per affrontare un periodo complesso. Tagliare, frammentare, lacerare, in qualche modo sembra una reazione appropriata per fronteggiare un ambiente difficile.

AS: Mi piacerebbe sapere qualcosa della scelta dei tuoi soggetti, spesso ritratti durante comuni attività di svago... K: Ormai lavoro con questo tipo di immagini da parecchio, circa dieci anni, e si tratta di immagini di tutti i giorni, le fotografie da cui provengono queste immagini sono vernacolari, immagini quotidiane, solitamente trovate e non scattate da me. Il fatto che credo sia importante evidenziare è che queste immagini hanno a che fare con il fatto che sono nata nel Sudafrica dell’apartheid, ho cresciuto una famiglia nel Sudafrica post-apartheid, e ho sentito la necessità di collocarmi come pittrice, trovare il mio materiale e i miei soggetti, in ciò che io riconosco come autentico, che è parte del mio stile di vita. Crescere in questo paese, in cui le disparità e il privilegio di alcuni sono elementi molto forti, mi ha fatto scegliere di dipingere piscine, giardini, cortili, strade, elementi in cui le persone sono a loro agio, sperando di suggerire il problema che si nasconde dietro queste situazioni: ovvero che c’è una sottostima del proprio livello di benessere, e che con questo spesso vengono la malizia, l’edonismo, la disattenzione, e la mancanza di responsabilità.

AS: Nelle tue opere vedo una sorta di sospensione nostalgica, che credo dipenda almeno in parte dal taglio fotografico che spesso adotti. In Court Shoes, per esempio, il soggetto sembra fotografato per sbaglio...


K: In quell’opera in particolare, mi ricordo di non aver voluto individuare qualcuno. Credo che spesso con le mie immagini preferisco non descrivere i tratti somatici, ma lasciare che la figura sia generica, perché nel momento in cui si danno i tratti di un volto diventa qualcuno che conosci o no.

AS: Court Shoes, Colonial Mentality e Dance Dance Dance, le opera che abbiamo in mostra, sembrano appartenere a tre diversi momenti della tua ricerca. Cosa è cambiato tra l’uno e l’altro nel tuo uso del colore? K: Credo di aver sempre lavorato con colori chiari e scuri, attraverso gli anni vado e vengo da tonalità scure, che rispondono più che altro alle immagini con cui lavoro, hanno a che fare con il contenuto dell’immagine. Non è questione di periodi nella mia ricerca artistica. A volte mi piace lavorare con colori molto saturi, ma credo sia più che altro un fatto connesso con l’evocare l’umore, l’atmosfera, che per me è molto importante nelle mie opere. Le mie opere scure ovviamente hanno un’atmosfera molto diversa da quelle più colorate.

A me piace l’applicazione della pittura in generale, la possibilità di esplorare e di proporre a me stessa la sfida dell’uso di tutti i colori.

AS: Ci sono degli artisti del passato che hanno influenzato la tua pratica? K: Certo, moltissimi, ma se torniamo alle opere nere e scure, i lavori in cui Goya e Manet usano neri molto marcati con la funzione di dare un senso drammatico, mi hanno influenzata, insieme all’atmosfera che sanno evocare grazie a contrasti piuttosto marcati... ma più in generale credo che il periodo che mi attira di più è quello degli anni Sessanta e Settanta, specialmente il pop inglese, e artisti come R. B. Kitaj, Francis Bacon, e Richard Hamilton. Quello che mi piace è che sono audaci nelle scelte cromatiche, e che le composizioni, la progettualità, sono molto dinamiche. Riescono a unire meravigliosamente piani astratti e immagini figurative. Francis Bacon ne è un esempio: gli elementi figurativi sono disturbanti e inquietanti, ma proprio per questo interessanti. Ecco, queste combinazioni per me sono eccitanti. Un altro esempio è quello delle opere giovanili di David Hockney – credo sia diventato più decorativo una volta giunto a Los Angeles, mentre prima... sono particolarmente attratta dalla fase precedente. Come anche da Kitaj, che credo sia un artista veramente sottovalutato.

AS: Credi che il fatto di essere donna, e più in generale le questioni di genere, abbiano influenzato il tuo lavoro? Casualmente nelle opere che abbiamo esposto i personaggi principali sono femminili... K: Sono stata una giovane artista che pensava, sognava di avere un nome di genere indistinto, in inglese abbiamo nomi come Robin, che possono essere sia maschili che femminili, e molto presto ho pensato che sarebbe stato un vantaggio avere un nome del genere, comunque, sappiamo tutti che le donne sono sempre state meno riconosciute da istituzioni e gallerie, ma questo fatto sta cambiando. Io stessa, sono stata toccata dalla maternità, ho avuto tre bambini, ma non è scontato avere dei figli e portare avanti una carriera artistica, anche se è stata la scelta giusta. A volte c’è la percezione che tu non possa prenderla seriamente, e se hai dei figli, non sia presa sul serio come artista, il che è strano, ma è una percezione comune.

Io dipingo quadri figurativi in cui ci sono figure femminili e maschili, a volte figure meno connotate, non credo di avere una preferenza ma credo che nelle mie opere ci siano tutte e due. A volte tra i generi c’è un attrito, o la percezione di un gioco di potere, o di stereotipi di genere... le conversazioni tra i generi sono lì, nel lavoro stesso.




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